Outliers- capitolo 1

Note d’Autrice 

Prima di iniziare, data la delicatezza delle tematiche trattate, mi sembra doveroso fare alcuni chiarimenti, alcuni di buon senso, altri probabilmente funzionali alla comprensione delle storie -in realtà sono solo logorroica, ma fingete di prendermi sul serio-.

Per quanto si faccia e si dica per ridurre lo stigma che colpisce le persone che soffrono di una qualche forma di disturbo, questo è terribilmente radicato nella mentalità popolare, con tutta la carica di sofferenza extra per pazienti e familiari che questo comporta.
Molte persone che riconoscono di avere una qualche problematica sono spinte a non cercare l’aiuto specialistico di cui necessitano per la paura della discriminazione sociale o di perdere la famiglia o il lavoro; molti nascondono la loro condizione e le famiglie e gli amici possono arrivare a rifiutare i loro cari sofferenti.
L’accesso alle cure e ai farmaci, le decisioni rispetto alla terapia e allo stile di vita, tutto diventa una sfida che deve non solo tenere conto delle logiche familiari e delle caratteristiche del disturbo, ma anche del giudizio degli altri e delle politiche dello Stato.
Questa raccolta parla proprio di loro, dei protagonisti tendenzialmente silenziosi dello stigma, della difficoltà; ognuno coi drammi, i dubbi, i problemi che comporta vivere con un nemico così ambiguo ed inafferrabile e con una società che spesso condanna e non supporta. Alle prese con decisioni difficili, con paure paralizzanti, con sofferenze a volte indicibili e non solo inenarrabili.

NOTA BENE:

-La seguente storia NON riporta storie di persone reali, ma solo fatti verosimili o liberamente ispirati a situazioni realmente avvenute.

-Qualsiasi descrizione della sintomatologia e dell’eziologia dei disturbi mentali presentati nei seguenti capitoli è, per quanto accurata, a mero scopo narrativo; in nessun momento la seguente raccolta può sostituire il parere di un medico psichiatra o di uno psicologo.
Altresì è sconsigliato, nel caso vi ritroviate nelle descrizioni delle patologie, di affidarsi a questionari reperiti su Internet per avere una conferma della vostra autodiagnosi: quei test possono solo essere indicativi e non sostituiscono un esperto [e detta tra noi, tendenzialmente sbagliano alla grande].

-Per una serie di questioni -di natura stilistica, ma anche correlate alla sintomatologia o alle problematiche a cui vorrei dar risalto-, i narratori dei disturbi considerati tipicamente infantili saranno tendenzialmente -ma non unicamente- i genitori.

-Per questioni sia di fruibilità che di metodologia, ho scelto di scrivere solo di quei disturbi ufficialmente riconosciuti dalla psichiatria ed elencati nell’ultima edizione del DSM -ad eccezione di alcune categorie diagnostiche ancora estremamente dibattute-. Chiaramente non tratterò tutti i disturbi, ma sceglierò quelli più rappresentativi delle varie sezioni oppure i casi prototipici che colorano la fantasia popolare -ma sempre basandomi sulla conoscenza oggettiva di quel disturbo e alle informazioni che possono reperire. Per dire, molti disturbi della sfera sessuale per me sono semplici nomi sulle pagine del DSM perché non li ho mai trovati interessanti. My bad-.


C14H19NO2

Sciaff!
Crack!

Cate aggiunse alla lista un altro negozio dove non avrebbe mai messo piede, mentre raggiungeva il figlio, pronta al solito teatrino.
Acchiappa il bambino e calmalo.
Calma proprietari e commessi.
Rimborsa l’oggetto fatto a pezzi da Tommy.
Scappa alla velocità della luce.

Tutto in rapida sequenza, ad occhi bassi, sperando di non essere riconosciuta da nessuno; era già abbastanza penoso vivere quelle situazioni, non era decisamente il caso di subire una doppia umiliazione e di diventare il pettegolezzo del giorno. Tanto, a farla sentire la madre di merda dell’anno ci pensavano puntualmente gli sguardi di tutti i presenti, fissi su di loro, su quella madre incapace e quel bambino maleducato.
All’inizio aveva provato anche a spiegarsi, a giustificare suo figlio; non le andava giù che lo giudicassero così duramente per qualcosa che non poteva ancora controllare, che lo vedessero solo come il suo disturbo.
“Ha l’ADHD, non è colpa sua.”
Be’, non aveva mai funzionato, non aveva mai ricevuto comprensione o solidarietà, ma solo una dubbiosa pietà o sguardi di disprezzo, come se fosse una scusa per il suo non saper gestire il bambino. Qualche psichiatra in borghese le aveva consigliato due bei schiaffoni oppure di farlo vedere.
Maddai, genio. Perché il neuropsichiatra ha la bacchetta magica, no? Guarisce con l’imposizione delle mani, stronzo?
Ma questo lo pensava sempre dopo, perché, in realtà, quando glielo dicevano le veniva da piangere.

-Tommy, allacciati la cintura! Tommaso, ‘sta fermo, non vedo!
Un mantra: “Tommy, ‘sta fermo“.
La diagnosi era stata un fulmine a ciel sereno, ma col senno di poi avrebbe dovuto aspettarselo: era sempre stato così attivo, un po’ distratto, incapace di star seduto troppo a lungo, spesso agitato, facile nel prender rabbia… Peccato che il senno di poi non avesse mai aiutato nessuno e che quando il neuropsichiatra aveva comunicato loro la diagnosi, aveva sentito un dolore sordo al petto e le era montata la nausea. Se non fosse stata seduta, sarebbe finita per terra.
Suo marito era entrato in negazione e ci era rimasto per mesi: Luca non concepiva nemmeno per sbaglio l’idea che Tommy non fosse normale, che non era una fase, che non era solo un bambino un po’ attivo ed ingenuo. Per lui era stato un vero e proprio lutto, la perdita di tutte le speranze e di tutti i piani che aveva fatto per loro figlio.
All’inizio Cate l’aveva capito, l’aveva tollerato; anche lei soffriva, anche lei si dibatteva negli “e se…“, ma poi erano entrati in rotta di collisione.
“Quello si è sbagliato, portiamolo da un altro medico!”
Quello era uno dei migliori nel suo campo in Italia e sicuramente non potevano permettersi di portarlo da un altro medico, magari privatamente.
“Mio figlio non è pazzo.”
Ed infatti ha l’ADHD, ha un disturbo del neurosviluppo. Non è pazzo.
“Magari se passasse più tempo con gli altri bambini e meno con te…”
Chiaramente ora era colpa sua. Si sa, no, è sempre colpa della mamma…
Mia madre dice che è solo viziato…”
Giusto, la signora Marina, nota esperta a livello mondiale di ADHD.
“No, guarda, proprio non ho il tempo di prenderlo a scuola/passarci del tempo assieme.”
C
ome tutti i giorni da quasi un anno a questa parte e quindi quella terribile zavorra ricadeva solo su di lei: andare a prenderlo a scuola, parlare quasi tutti i giorni con le maestre, portarlo a fare terapia –sempre troppo poco rispetto a quello di cui aveva bisogno, ma di più non potevano permetterselo-.
Il momento peggiore, comunque, era la spesa: un campo di battaglia, una guerra persa a priori, alla fine dell’operazione sul campo andavano contati feriti e dispersi.
Era stato proprio il primo argomento di cui aveva parlato al gruppo di sostegno per i genitori e per la prima volta si era sentita compresa: non era più una madre incapace, non era più una stronza –termine che Tommy aveva sentito chissà dove e che amava usare contro di lei durante gli scatti di rabbia-, era di nuovo una persona.
Gli altri genitori avevano annuito e borbottato, le avevano manifestato simpatia e vicinanza, avevano anche tentato di darle dei consigli.
Si era finalmente sentita bene.

Il viaggio in macchina era stato all’insegna del silenzio, visto che il signorino sul sedile posteriore si era chiuso in un mutismo ostinato.
A volte doveva farsi violenza per non urlargli contro, per ricordarsi che era normale, che Tommy aveva anche un disturbo oppositivo provocatorio come moltissimi altri bambini con l’ADHD, che era un pochino permaloso… ma la necessità di urlargli addosso non diminuiva e lei si sentiva terribilmente in colpa, perché solo un genitore di merda può alterarsi per la malattia del proprio figlio.
Quel senso di inadeguatezza non la lasciava mai e, anzi, andava crescendo: non era una buona madre, non andava bene per Tommy, non era abbastanza preparata, abbastanza pronta, abbastanza comprensiva. Riassumendo: non era abbastanza e suo figlio meritava almeno una mamma nei limiti della decenza, peccato che lei, Cate, fosse quello che passava il convento.
Il primo, grande errore commesso era stato quello di parlare con le maestre.
Un errore madornale e non se lo sarebbe mai perdonata.
La maestra Giulia, una maestrina giovanissima ma decisamente informata sull’argomento, era stata una vera manna dal cielo e aveva tentato di rassicurarla, spiegandole che con il dovuto supporto anche Tommaso avrebbe potuto ottenere risultati scolastici dignitosi. Lì, aveva toccato il cielo con un dito.
Peccato che la maestra Fabiana avesse spifferato tutto al gruppo delle mamme-perfette-e-sempre-sul-pezzo prima che venisse decisa una strategia d’azione; nel giro di un paio di giorni tutti sapevano che nella 1°C c’era un bambino problematico –handicappato, come certi soggetti pieni di tatto lo avevano definito-. In una settimana, erano risalite pure all’identità e Tommy non era stato più invitato alle feste di compleanno.
Il dolore nel vederle escludere suo figlio aveva superato persino la rabbia per l’accaduto e la lievissima sete di sangue che aveva provato.
“Succede anche con Giada, Cate.”
“E con Sofia.”
“Non parliamo di Giacomo… ormai ha pure smesso di chiedere perché non lo invitano…”

“Ho paura che faranno lo stesso con Martina…”
E anche quella volta, contro ogni pronostico e contro ogni buonsenso, si era sentita bene: non erano lei e Tommy contro il mondo, c’erano altri come loro, altri pronti ad aiutarli e a condividere le loro esperienze… ma a casa erano un altro paio di maniche.
Lei e Luca avevano litigato per settimane per l’accaduto, lui l’accusava di essere stata un’irresponsabile, di aver segnato a vita il figlio –”Ti rendi conto che ora sarà sempre un handicappato per tutti?!“-, di volere la via facile –quale via facile?!-; Cate, dal canto suo, gli aveva vomitato addosso mesi di rabbia e solitudine: l’aveva lasciata sola a gestire Tommy, si era chiuso nel suo dolore ignorando quello che provava lei, non l’aveva supportata in quello che stavano passando e, come se non fosse già abbastanza, aveva permesso ai suoi genitori di dar libero sfogo alla loro ignoranza.
Sembravano due grossi grizzly che lottavano all’ultimo sangue, ognuno deciso a spuntarla, ad aver ragione dell’altro sputando tutto il veleno che si erano tenuti dentro.

-Tommy, mi dai una man…? Sì, vabbé, ciao.
Suo figlio già sfrecciava su per le scale, con la mente proiettata alla tv che avrebbe accesso, guardato per qualche minuto e poi abbandonato per fare altro; le borse contenenti i loro acquisti toccavano tutte a lei.
Suo suocero le avrebbe detto che non aveva abbastanza polso: “Ah, ai miei tempi i bambini si correggevano con due cinghiate. Altro che tutte queste scuse per non educarli, vedevi come venivano su sani, prendi me e i miei figli”.
Ai tempi dei dinosauri sicuramente, si diceva Cate, ma sui risultati… be’, se la famiglia punizioni-corporali-ma-perfetti era il massimo che si poteva pretendere, il metodo era decisamente fallimentare…
Tommy l’aspettava sul pianerottolo; il berretto di lana gli copriva anche parte della fronte, ma qualche ciuffo di capelli neri era riuscito a sfuggire e a ricadergli sugli occhi scuri e profondi. Aveva le guance arrossate per la corsa e un mezzo sorriso sbarazzino… poteva giurare di avergli visto quello stesso sorriso la prima volta in cui l’aveva tenuto in braccio.
-Dai, mamma, apri la porta! Sei lenta come una lumaaaaacaaaaa.
La donna lo avvolse in un abbraccio e gli lasciò tanti baci sul visetto accaldato.
-Ma io sono una lumaca bavosaaaa! Supplica pietà!
-Naaaaa, che schifo! Bava!
-Supplica pietà!
-Pietà! Pietà!
Era quei momenti, quelli in cui Tommy si dibatteva contro di lei e ricambiava il suo affetto, accettando quei giochi un po’ scemi, quelli in cui ridevano assieme a darle la forza di sopportare l’ADHD ed il resto del mondo.

La cena era sul fuoco, Tommy stava disegnando –una delle poche attività che riusciva a tenerlo moderatamente fermo su una sedia- e Cate poteva godersi qualche minuto di pausa.
Prese il portatile e lo accese; ci mise millenni a caricare e la donna si appuntò mentalmente di dargli una controllata appena ne avesse avuto il tempo.
Cliccò sull’icona del brower, prese un profondo respiro e digitò “Ritalin”.
“Il ritalin mi ha salvato. Ora Camilla è molto più calma, anche i voti sono migliorati, possiamo persino uscire di casa…”
“Praticamente droghi tua figlia per farla stare buona.”
“No, le do una medicina sicura che la fa star meglio e le rende possibile avere una vita normale!”

Dopo un paio di mesi nel gruppo di mutuo aiuto, aveva scoperto che le liti sull’uso dei farmaci erano all’ordine del giorno; esistevano due fazioni: i pro, quelli a cui il ritalin aveva salvato prole, vita e matrimonio e i contro, che affermavano che si trattava di droghe per rimbambire i bambini.
Un paio di vecchie leve del gruppo, i cui figli erano adolescenti, l’avevano introdotta all’argomento, dandole una specie di fascicoletto illustrativo e parlandole dell’epoca in cui, essendo il farmaco proibito in Italia, organizzavano vere e proprie azioni di contrabbando dalla Svizzera –dove era invece legale- pur di procurarsene abbastanza per i propri figli.
“Non devi sentirti obbligata, ma è un’opzione. Soprattutto… be’, so che hai problemi con la terapia, per via dei soldi.”
“Cate, non credo che possiamo più starci dentro con la terapia per Tommy.”
Sì, l’avere un solo stipendio che finiva praticamente tutto nelle mani della psicoterapeuta del bambino non aiutava molto le finanze di famiglia e lo Stato non aiutava, perché suo figlio non era invalido e quindi la terapia era a loro spese.
“Sai, con Giulia ho avuto lo stesso problema… poi, be’, siamo riusciti a far approvare il ritalin e da allora sta meglio. Va bene a scuola. Dovresti pensarci, Cate.”
Aveva detto di sì, che doveva pensarci.
Non lo aveva fatto.
Non aveva voluto.
Non se l’era sentita di dare a Tommy quella medicina, di bollarlo come definitivamente malato, di dargli qualcosa che chissà che effetti collaterali poteva avere! Era pur sempre sua madre, per dio, una soluzione l’avrebbe trovata.
Ma il tempo passava e vedeva sempre di più il Tommy adolescente dei suoi incubi, lo guardava e sentiva le voci degli altri genitori: di quelli della scuola, che lo chiamavano handicappato e di quelli del gruppo.
“A volte guardo Andrea, soprattutto quando si arrabbia ed inizia a sbraitare e a lanciare tutto e vedo quello che diventerà. Lo vedo fare avanti e indietro dalla galera, perché se ti comporti così e non studi che altre alternative hai?”
“Con Nicole è un incubo… io non so che fine farà, a scuola va malissimo e a volte la vedi… si attacca come una cozza alle persone e non so se sia normale… ho paura che finisca con qualche poco di buono.”

“Giacomo ha morso un suo compagno di classe… non riesco a chiudere occhio, ho sempre paura che mi suonino gli assistenti sociali alla porta.”
E la loro voce, la sua e quella di Luca, quando la sera si chiedevano cosa avrebbe fatto Tommy nella vita. Sarebbe stato nel 50% fortunato di casi in cui il disturbo scompare nell’età adulta? E se così non fosse stato? I suoi scatti di rabbia e i comportamenti aggressivi sarebbero peggiorati o diminuiti? Chi era quell’estraneo rabbioso e frustrato che tornava da scuola urlando di non volerci più andare? Avrebbe mai avuto un amico? Se non potevano più permettersi la terapia cosa avrebbero fatto –e col cavolo che potevano permettersela, iniziava ad essere un costo eccessivo-?
A convincerla era stato proprio suo marito, la sera prima.
“Cate… io me lo vedo già in riformatorio.”
Il Tommy immaginario, quasi adulto, con un accenno di barba e i capelli neri e mossi dietro le sbarre la guardava male, gli occhi scuri erano due pozze di odio, delusione e biasimo, quasi a dirle che era solo colpa sua.
Il campanello di casa suonò e Tommy ritornò ad essere un bambino che colorava, con le mani e persino la faccia inguaiate di pennarello. Sereno, anche se pieno di casini. Era ancora il suo bambino paffuto con la passione per i dinosauri.
-Tommy, fammi un favore, apri a papà.
“Cate… io me lo vedo già in riformatorio.”
“A volte guardo Andrea, soprattutto quando si arrabbia ed inizia a sbraitare e a lanciare tutto e vedo quello che diventerà. Lo vedo fare avanti e indietro dalla galera, perché se ti comporti così e non studi che altre alternative hai?”
“Con Nicole è un incubo… io non so che fine farà, a scuola va malissimo e a volte la vedi… si attacca come una cozza alle persone e non so se sia normale… ho paura che finisca con qualche poco di buono.”
“Giacomo ha morso un suo compagno di classe… non riesco a chiudere occhio, ho sempre paura che mi suonino gli assistenti sociali alla porta.”
“Sai, con Giulia ho avuto lo stesso problema… poi, be’, siamo riusciti a far approvare il ritalin e da allora sta meglio. Va bene a scuola. Dovresti pensarci, Cate.”

“Il ritalin mi ha salvato. Ora Camilla è molto più calma, anche i voti sono migliorati, possiamo persino uscire di casa…”
“Praticamente droghi tua figlia per farla stare buona.”

Ah, ai miei tempi i bambini si correggevano con due cinghiate. Altro che tutte queste scuse per non educarli, vedevi come venivano su sani, prendi me e i miei figli”.
“Ha l’ADHD, non è colpa sua.”
“Succede anche con Giada, Cate.”
“Non devi sentirti obbligata, ma è un’opzione. Soprattutto… be’, so che hai problemi con la terapia, per via dei soldi.”
“Cate, non credo che possiamo più starci dentro con la terapia per Tommy.”
“Cate… io me lo vedo già in riformatorio.”
La donna prese un profondo respiro.
-Luca, per favore, verresti di là? Dobbiamo parlare.- disse Cate, prendendo dalla libreria il fascicoletto sul Ritalin.

N.d.A.
Credo sia doveroso fare alcune precisazioni alla fine di questo capitolo: Cate, Tommy e Luca non esistono, ma ho deciso di far vivere loro l’agonia che molte famiglie di bambini con l’ADHD vivono.
La mancanza di mezzi che garantiscano cure adeguate ai figli, l’a volte obbligatorio ricorso al Ritalin –che non è sempre necessario- e l’abbandono della psicoterapia, il timore per il futuro dei figli, i gruppi di mutuo soccorso, lo stigma in ambito scolastico e, ultimo ma non ultimo, il continuo giudizio negativo a cui i genitori sono sottoposti: non sono i genitori di bambini con problematiche particolari, sono solo genitori incapaci.
Sia chiaro, non sto giudicando assolutamente chi decide di usare i farmaci, lungi da me farlo, perché so quanto possano essere essenziali in determinati casi: il mio intento era quello di sottolineare la solitudine e la mancanza di supporto da parte della società che queste famiglie devono affrontare.

*Il titolo fa riferimento alla formula bruta del Ritalin.

Hijos perdidos

Rating: Verde
Lunghezza: One-shot
Fandom/Sezione: Storico
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo,  Malinconico
Avvertimenti: Tematiche delicate
Coppie: /


La cella era buia, talmente buia che Aurken non avrebbe potuto dire se era notte o giorno, ma probabilmente era solo un’impressione, un gioco dei suoi occhi o il netto rifiuto del sole di entrare in quel posto.
Non era sicura di quante persone fossero lì con lei… sicuramente erano più di quelle che la stanza era stata progettata per contenere, perché nemmeno nelle più rosee fantasie del progettista era possibile che avesse immaginato di ficcare così tanti esseri umani in così poco spazio.
Non era nemmeno sicura che fossero le stesse con cui era entrata qualche settimana prima; probabilmente non lo erano i bambini, di quello era certissima.
C’era una specie di strano andamento periodico con loro: all’inizio, piangevano. Terribilmente, tutto il tempo. Nelle prime ore o nei primi giorni era per paura.
In quelli seguenti per la fame e la sete.
Poi prendevano due strade diverse: alcuni iniziavano ad emettere semplici mugolii, destinati a scomparire velocemente. Altri continuavano a strillare, ma non ininterrottamente: erano più scoppi di impotenza e rabbia, gli ultimi rimasugli di una qualche voglia di normalità, come se persino i più piccoli si rendessero conto che non solo qualcosa non andava, ma che quel qualcosa era completamente innaturale.
Alla fine potevano succedere solo due cose: o la smettevano anche di lamentarsi sporadicamente oppure comparivano poliziotti, uomini distinti in borghese e preti, la porta della cella si apriva, scoppiava una specie di stanca ressa e poi la porta si richiudeva.
Aurken a quel punto perdeva totalmente interesse nella vicenda ed il mondo esterno tornava ad essere avvolto da una spessa coltre di nebbia.
Di tanto in tanto provava a parlare con la sua vicina –era sempre la stessa?- o a contare le persone nella cella o a calcolare che giorno forse, ma poi perdeva interesse.
Non era mai stata una persona particolarmente emotiva o espansiva, non aveva mai cercato con particolare attenzione il contatto umano e, esattamente come sua madre, aveva maniere spicciole e tendeva a ridurre le chiacchiere al minimo indispensabile, che poi era il motivo per cui Agosti l’aveva sposata.
Non era stato amore, non era stato né un colpo di fulmine né una di quelle storie romantiche che si accendono piano piano, per poi trasformarsi in un incendio estivo: ad unirli c’era la stima reciproca e gli ideali che l’avevano accompagnata, mano nella mano, nella cella; aveva seguito il consiglio della madre –“meglio un uomo solido, con la testa ben piantata dove deve stare e pochi grilli”- e le simpatie di suo padre per scegliere il compagno della sua vita e non lo rimpiangeva.
Con Agosti era stata bene, non invidiava le storie d’amore da favola delle sue amiche, né la differenza di età le aveva mai particolarmente dato fastidio; ad essere sinceri, era tutto valore in più: una persona educata, con tanta esperienza alle spalle che poteva sostenere con lei quelle conversazioni che altri uomini trovavano sconvenienti se pensate da una ragazza.
Non avevano mai cercato un figlio, consideravano i loro ideali e la loro lotta come l’unico, degno erede delle loro esistenze e per diversi anni non era stato un problema: non sentiva il vuoto che le altre donne le avevano predetto, non sentiva l’istintiva necessità di asciugare moccio e tirare guance paffute.
Poi aveva scoperto di essere incinta e nemmeno quello le era parso un vero problema: era un bambino, in qualche modo se la sarebbero cavata.
Lo pensava ancora. O, per lo meno, ci sperava.
In qualche modo lei e il bambino se la sarebbero cavata, lì dentro.
Ce l’avrebbero fatta.
Forse.

Eusko Gudariak gara*
Euskadi askatzeko,
gerturik daukagu odola
bere aldez emateko.

Il letto era scomodo, la camicia da notte un pochino grattava. Un pochino tanto, si corresse mentalmente e aveva un male atroce ovunque, persino a parti del corpo che non credeva di possedere.
Ma era comunque meglio della cella e lì c’era della luce, che le feriva sì gli occhi ora abituati all’eterna penombra, ma che le dava anche un minimo di conforto.
Le suore non le erano mai piaciute, le erano sempre sembrate la grottesca caricatura di una donna, incattivite dal desiderio di quello che non avrebbero mai potuto avere, per ristrettezza di mezzi o per desiderio dei parenti; sua madre le aveva sempre rimproverato di essere fin troppo pronta alle critiche e di non lasciar mai agli altri il tempo di mostrarle il loro vero carattere.
Ora avrebbe potuto finalmente urlare in faccia a quella donna taciturna e severa che aveva sempre avuto ragione.
Chissà come stava sua madre… Si era finalmente fatta cucire il vestito nuovo che voleva tanto?
Il filo dei pensieri venne spezzato da una fitta tremenda. Il mondo divenne completamente bianco, lo stomaco le si rivoltò, ogni singola fibra del suo corpo si ribellò.
-Tiratelo fuori! Ora!
Una delle monache probabilmente la rimbrottò, mentre le altre due controllavano sotto la sua camicia da notte, borbottando tra loro.
Ad ogni fitta la realtà si sgretolava.
Si rimescolava.
Tornava assieme, caotica.
Si sgretolava di nuovo.
Era normale soffrire così?
Dalla faccia della sorella-levatrice, non ne era particolarmente certa.
Peccato.
Le piaceva essere certa delle cose.
Chissà se poi sua madre era andata dalla sarta…

Quatro pasos quiero acordarme**
Quatro pasos ya sé
Tu me quisiste, yo te quise
Cinco pasos ya sin perderme
Tanto me alejé
Cinco pasos y te perdoné

La donna in nero entrò nell’ufficio della superiora, un luogo spartano, freddo, ingombro di pesanti mobili di legno scuro, di incartamenti sulle spese del convento e sulle suore che erano andate e venute in quel luogo, di Bibbie e agiografie e poco altro. Un enorme Cristo in croce scrutava con severità gli astanti, mentre una Madonna di gesso sembrava quasi tentare di addolcire con il proprio viso sereno l’austerità del figlio morente.
La monaca si fece da parte, lasciando entrare una coppia ben vestita a braccetto; lui aveva forse una cinquantina di anni, i capelli color topo mostravano i segni di una calvizie incipiente e gli occhiali continuavano a scivolargli lungo il naso per via del sudore. Indossava un bel completo scuro, un cappotto dello stesso colore e delle scarpe di cuoio lucide e la postura un poco ingobbita lasciava pensare ad un funzionario o un impiegato.
Lei era decisamente più bella del marito: nonostante fosse sulla quarantina –più sui quarantacinque, in realtà-, la pelle candida di qualcuno che non aveva mai lavorato in vita sua appena rigata da qualche ruga, era luminosa e contrastava nettamente con l’abito verde scuro ed il cappotto che indossava. Gli occhi erano chiari, vivi e fremevano, impazienti per qualcosa.
La coppia si sedette e, a convenevoli svolti, la madre superiora passò ad argomenti seri.
-Confido che la signora abbia preso tutti gli accorgimenti del caso.
La donna sorrise e gli occhi le si riempirono di un malcelato orgoglio. –Certo. Abbiamo detto che siamo in città, sa, per via dell’età…
-Una mossa saggia. Nostro Signore non tollera la menzogna, ma sicuramente comprenderà ciò che è fatto a fin di bene, come in questo caso particolare. Come vi ho scritto, abbiamo ciò che avete chiesto.
A questo punto l’uomo si sporse istintivamente verso di lei, in attesa.
-Dicevo… abbiamo un caso particolare. Una bambina.
La donna curata andò in visibilio, mentre il marito ci mise un po’ di più a raggiungere la stessa estasi, passando prima per lo stupore e la delusione. –Una bambina.
-Sana e robusta, nata due giorni fa.- aggiunse la madre superiora –Chiaramente è una povera orfana, come preventivato, ma chiaramente nessuno ha bisogno di sapere delle disgrazie di questa povera creatura che il Buon Dio ci ha affidato.
-Chiaramente.- dissero in coro marito e moglie.
Ma non ebbero il coraggio di guardare il Cristo in croce quando si congedarono.

¿Cómo pude imaginarme***
Que tenía algo que darte?
Y yo en mi madurez y tú
En tu plena juventud
Los años no perdonan

I primi mesi erano stati un inferno: Rosario non faceva che piangere, ogni motivo era buono. Aveva fame, aveva freddo, aveva caldo, aveva male, aveva… aveva sempre qualcosa.
Encarna aveva perso il conto delle notti insonni, delle crisi di pianto, dei terribili momenti in cui avrebbe voluto tenerle la testolina pelata sott’acqua e farla stare zitta; non era il sogno che si era aspettata, non era il coronamento delle sue ambizioni, ma poi la vedeva sorridere oppure la osservava dormire ed il suo cuore si riempiva di un amore terrificante, potente, impossibile.
Ogni paura scompariva, il timore che non averla portata in grembo la rendesse una madre incapace lasciava il posto alla consapevolezza di essere l’unica madre che avrebbe mai avuto e di poterle dare tutto.
Erano lei e Rosario contro il mondo, nemmeno Antonio poteva capire cosa ci fosse tra loro due: lui era lì, sullo sfondo, una comparsa nel racconto epico che stavano scrivendo assieme.
I primi anni erano stati complicati: Rosario era una monella e una chiacchierona.
Curiosa, indomabile, eternamente impegnata a cacciarsi nei guai o a formulare domande impossibili; non c’era no che tenesse, non c’era sculacciata che la fermasse, quando si ficcava qualcosa nella sua testolina bionda e riccia, non la si poteva tener ferma.
Antonio aveva finalmente iniziato ad apprezzare quella creaturina egocentrica, impegnativa, bisognosa e a riempire la sua mente di nozioni e storie, ma non era paragonabile a quello che c’era tra di loro: Encarna e Rosario, sempre assieme, sempre complici.
Complici quando Encarna le faceva mettere per gioco le sue perle, complici quando mangiavano un dolcetto di nascosto, persino complici quando Rosario fingeva di dimenticare le parole delle preghiere per dilatare all’infinito il momento della buonanotte.
Quello che era stato prima del convento era scomparso, dimenticato e davanti ai complimenti per la bellezza e la vivacità di sua figlia, la donna non faceva che gonfiarsi di orgoglio.
Sua figlia, solamente sua, persino Antonio era superfluo in quel quadretto.
L’aveva desiderata, aveva pregato per lei e Dio gliel’aveva data. Era palese che prima del convento non ci fosse nulla da ricordare e col tempo Encarna aveva quasi dimenticato… solo di notte la consapevolezza della menzogna tornava di prepotenza alla sua mente, facendola svegliare di soprassalto, straziandole il cuore e le carni.
L’altra era in agguato nei suoi incubi, col viso della Madonna di gesso del convento, pronta a ricordarle l’ovvio, pronta a minacciarla di rovinarle l’esistenza.
Encarna la combatteva, le urlava che Rosario era sua, che le somiglia persino, che era stata la miglior madre possibile, che non aveva nessun diritto di rovinarle la vita. Non poteva tornare, non era la sua vita!
Non puoi mentire per sempre.- era la risposta che l’attendeva ogni volta.
No, non avrebbe potuto.

Un paso me voy para siempre
Un paso fuerte
Un paso hacia adelante

Encarna non aveva potuto mentire per sempre.
All’inizio era solo stanca; sempre stanca, terribilmente stanca.
Antonio, esasperato da quella situazione, l’aveva portata dal medico e la diagnosi, terribile, era arrivata come un fulmine a ciel sereno: cancro al seno. Il viaggio di ritorno era stato fatto nel mutismo più totale, mentre colossali nuvole nere si addensavano sopra di loro ed enormi gocce di pioggia rotolavano sulle loro guance gelide.
Erano stati felici.
Non sempre, era chiaro: la sterilità era stata una maledizione e il matrimonio era sempre stato più un’unione di interesse che di amore, ma l’arrivo della bambina aveva reso tutto migliore, aveva aggiustato ciò che si era incrinato anni e anni prima.
Per Encarna, quello era stato un segno: colpita al seno dal male peggiore che si potesse immaginare, colpita proprio a quel seno che non aveva mai potuto donare nutrimento. Era un messaggio della Madonna, la promessa dell’altra che si compiva.
Smise di dormire la notte, terrorizzata da ciò che avrebbe potuto sognare, da quel viso di gesso pronto a deriderla e a minacciare di riprendersi Rosario.
Smise di provare appetito o gioia.
Una coltre grigia e gelida l’avvolse… e alla fine non poté più tacere.
Chiamò Rosario in camera sua e la strinse a sé come quando sua figlia era piccola e non poteva dormire a causa di qualche incubo. Le accarezzò i capelli ricci, le guance umide, la fronte alta e liscia; annusò il suo odore, le baciò i capelli. Era stato tutto suo per diciassette anni, un sogno splendido, bellissimo, ma che aveva rubato ad un’altra donna.
Con la voce rotta, piena di vergogna e rimpianto, glielo disse.
Le disse che era sterile.
Le disse che l’aveva comprata come un volgare capo di bestiame.
Le disse che qualcuno l’aveva rubata per lei a sua madre in cambio di denaro.
Qualcosa si incrinò, si spezzò, andò in frantumi.
Encarna glielo vide negli occhi e desiderò essere già morta; il suo cuore si disintegrò davanti al dolore che aveva provocato e allora, per la prima volta, negli occhi di Rosario non vide più i suoi.
Sua figlia non le assomigliava per niente, era impossibile sbagliarsi.

¿Y cuándo volverás?
Je ne reviendrai pas
¿Cuándo volverás?
Je suis si loin déjà
¿Y cuándo volverás?
Un dia o jamás

Il rumore delle chiavi nella toppa ridestò Rosario da quella specie di torpore in cui era sprofondata mentre beveva il suo tè; il tavolo era ancora disseminato di carte e l’orologio della cucina indicava che erano le cinque e mezza.
Probabilmente era Eva, che tornava dal fine settimana con suo padre… ed infatti il rumore di scarpe da tennis praticamente scaraventate sul pavimento dell’ingresso e lo scalpiccio di piedi nudi, seguiti dalla comparsa di una specie di bagliore rosso che le si scaraventò addosso baciandole la guancia confermò la sua ipotesi.
Elementare, Watson.
-Tutto bene?- chiese la ragazzina, sfilandosi il giubbino. Rosario annuì, massaggiandosi il collo.
-E tu?
-Ma’, il solito. Cinema, passeggiata, tutto normale. Papà di saluta.
La donna osservò attentamente la figlia, come si sorprendeva a fare sempre più di frequente nell’ultimo periodo; Eva era alta e priva di forme, ma non per questo priva di grazia… era una grazia particolare, la delicatezza di qualcosa di fragile e prezioso. Non aveva ancora iniziato a truccarsi e quindi la sua pelle abbronzata, ereditata dal padre, risplendeva in tutto il suo splendore.
A parte questo, da Jorge aveva ereditato pochissimo: sua figlia aveva la sua bocca e i suoi occhi chiari, verdastri e una marea di capelli ricci e biondicci… lei li aveva castani, anche se sapeva di averli avuti molto chiari da bambina e si chiese da chi li avessero presi.
Anche sua madre era così? Oppure erano i capelli di suo padre? Si passò istintivamente una mano tra i capelli, evocando l’immagine che si era fatta dei suoi genitori: sua madre, bassa e bionda, coi capelli ricci e suo padre, alto, con tanti capelli e dei gran baffoni.
-Stai ancora cercando?
Eva si intromise nei suoi pensieri e i suoi genitori scomparvero. Annuì e per un po’ il silenzio regnò sovrano.
Il piccolo appartamento madrileno non assomigliava minimamente alla casa borghese in cui era cresciuta e la confusione regnava ovunque ma non le dispiaceva: era sempre stata un po’ hippy e stravagante e quella casa rispecchiava perfettamente la vita folle che amava condurre assieme a sua figlia. Uno dei vari motivi per cui tra lei ed il suo ex non aveva funzionato.
-Mamma… e se non li trovi?
-Potrò dire di averci provato.- rispose Rosario. Le pareva una risposta soddisfacente, anche se un po’ preconfezionata, ma dubitava fortemente che qualcuno avesse scritto un manuale su come comportarsi in casi come il suo e poteva accontentarsi di qualcosa di così poco originale.
-E se li trovi? Cioè, saranno tipo vecchissimi e… be’… magari hanno altri figli…
Bella domanda.
E se li avesse trovati? Non ci aveva mai pensato davvero… forse perché non aveva mai davvero pensato di poterli trovare.
Dopo la rivelazione della sua madre adottiva, Encarna, non aveva iniziato subito le ricerche; un po’, perché era stato qualcosa di troppo grande da digerire, un po’ perché temeva quello che sarebbe potuto succedere. Inoltre sua madre era gravemente malata e nonostante la tremenda rabbia che aveva provato, non era riuscita a chiederle altro né a darle il dispiacere di cercare i suoi veri genitori.
Col tempo aveva scoperto che era una cosa del tutto normale per i figli adottati da piccoli… ammesso che “adottare” fosse il verbo giusto, nel suo caso.
No, lei era stata rapita e venduta. Come si fa con le bestie.
Non c’era stata nessuna forma di dignità o umanità in ciò che avevano fatto, non erano i benefattori di una povera orfana: l’avevano volontariamente sottratta ai suoi genitori per soddisfare il loro egoismo.
I primi anni erano stati di negazione: sua madre era malata, forse delirava o forse aveva messo giù le cose abbondando col melodramma. Non voleva e non poteva accettare di aver vissuto in una crudele bugia; ogni ricordo aveva iniziato a stingersi, ad incrinarsi, a perdere di significato e un terrificante gelo l’aveva avvolta.
Poi erano arrivate la rabbia e la vergogna: era stata comprata come un animale e i suoi veri genitori erano là fuori da qualche parte. Aveva odiato Antonio ed Encarna con tutta sé stessa e aveva lasciato quel ridicolo omuncolo da solo, andandosene quanto più lontano possibile e spergiurando che non avrebbe mai più parlato con lui, ma nemmeno allora aveva pensato di cercare i suoi genitori biologici: in quel dramma esistevano solo lei e la famiglia che l’aveva cresciuta.
Solamente con la gravidanza e la nascita di Eva aveva iniziato a pensare più frequentemente a sua madre, ad immaginarla, a simulare conversazioni con lei, a preparare il discorso che avrebbe voluto farle incontrandola per la prima volta.
Aveva così tante domande da farle, così tante curiosità da soddisfare, così tante cose da dirle.
Ma si era rivelato subito un problema: nessuno sapeva e nessuno parlava. Ufficiosamente, sapevano cani e porci, ufficialmente riuscire a cavare un ragno dal buco era impossibile.
Aveva incontrato altri come lei, altri bambini rubati alle loro madri tra gli anni ’40 e ’50. Erano ovunque, venivano da tutta la Spagna e avevano vissuto tutti la sua stessa storia e il suo stesso dolore, ma i documenti non c’erano.
E senza documenti, risalire alle identità delle madri era impossibile.
Allo stesso tempo, anche le madri avevano iniziato a cercare i propri figli: per quelle a cui erano stati tolti già grandi forse poteva essere più facile –Rosario ne dubitava seriamente, in realtà, ma la sua parte romantica sperava sempre in un ricordo che riaffiorava, in una voglia particolare o in altri espedienti da romanzo-, ma la schiera di donne che aveva perso i figli neonati difficilmente avrebbe potuto rintracciarli senza i certificati di nascita.
Si era chiesta molte volte cosa avesse fatto sua madre per incorrere nella punizione franchista, ma ascoltando le storie altrui aveva capito che bastava anche la mera parentela con un “dissidente” per vedersi privare dei propri figli ed il regime era caduto da troppo poco tempo per sperare davvero in un cambiamento.
Molti franchisti non erano mai stati processati, avevano semplicemente cambiato bandiera ed erano rimasti al loro posto; il clero aveva bellamente fatto finta di niente, come se non avessero dato manforte a Franco e i suoi uomini.
Era frustrante. Desolante. Ma non riusciva a mettere da parte i pochi indizi che aveva, non ce la faceva: lo faceva per sé stessa e per Eva, perché avevano il diritto di sapere chi fossero davvero.
Sua figlia rimestò tra le carte, per tirare fuori una foto sgualcita in bianco e nero: una bambina piccola assieme ad una donna dallo sguardo felice e pieno d’orgoglio e un ometto timido ed un po’ imbarazzato dall’obbiettivo. Encarna e Antonio. I suoi genitori.
-Sei arrabbiata con loro?
-Non lo so… forse all’inizio. Forse lo sono ancora… ma… non lo so, sai? Non capivo, all’epoca, non riuscivo a capire come avessero potuto farmi una cosa simile. Portarmi via da mia madre, rapirmi, comprarmi. Mi sono sentita come un cagnolino da appartamento e ti giuro che avrei voluto urlare e picchiarli e rompere tutto.- disse Rosario, abbracciandosi le gambe e raggomitolandosi –Mi avevano mentito, mi avevano fatto del male, non potevo perdonarli. Poi… poi, non lo so, forse sono cresciuta e sono diventata saggia, anche se tuo padre avrebbe da ridire… o forse ho avuto te, ma sono riuscita a capirli un pochino. Ho pensato a quanto terribile fosse per lei non avere figli a quei tempi e a tutte le cose stupide che facevamo assieme e a come urlasse al mondo intero che aveva la figlia migliore del mondo anche quando mi comportavo malissimo e… e ho capito che mi amava davvero, che mi ha dato quello che avrebbe dato ad una figlia completamente sua. Non… non riesco ad odiarla completamente, ma quando provo ad amarla, mi sento spezzata in due, come se non fosse giusto, come se non dovessi amarla per quello che ha fatto. Ma se provo ad odiarla, non ci riesco, perché penso a quanto sono stata felice con lei…
La ragazzina la strinse forte e la donna pensò a quanto grande e forte potesse essere sua figlia a soli quindici anni: seria, pensierosa, pacata, coraggiosa. Non lo aveva preso da lei, anzi, a volte le ricordava da morire sua madre Encarna e spesso si scopriva a pensare a lei con nostalgia, rammaricandosi del fatto che non aveva potuto conoscere quella nipote tanto splendida.
Sarebbe stata orgogliosa di lei, sicuramente e lo sarebbe stata anche l’altra madre, quella che l’aveva messa al mondo, perché Eva era semplicemente splendida.
-La troveremo, mamma. Te lo prometto.
Forse, si disse Rosario. Forse la troveremo, ma allora dovrò capire se una di loro mi ha persa davvero.


N.d.A
Il titolo “Hijos perdidos” è ispirato al titolo del saggio di Tara Zahra “The lost children”; la vicenda narrata è ispirata alla vicenda dei bambini rubati durante il regime franchista (https://en.wikipedia.org/wiki/Lost_children_of_Francoism ), anche se questo specifico racconto si focalizza maggiormente sulle vicissitudini interiori dei protagonisti che su quelle storiche.
Fonti extra: “Il cammino dell’adozione”- A. Olivero Ferraris
https://it.wikipedia.org/wiki/Eusko_Gudariak
https://www.youtube.com/watch?v=E3JTcbJGCoc
https://www.youtube.com/watch?v=BRhpkCdzCq4

Tragedia in Tre Atti: Atto III- Addii

Rating: Arancione
Lunghezza: Long-fic
Fandom/Sezione: Drammatico
Genere: Angst, Drammatico,  Introspettivo, Triste
Avvertimenti: Bad Ending, Contenuti forti, Death, Tematiche delicate, Violenza, Whump
Coppie: Het


Riuscì ad arrivare in Germania prima che la polizia mi trovasse. Rimasi nascosta in un appartamento affittato a settimana, pagando in contanti per non farmi trovare per quasi tre mesi. Per me furono abbastanza per scoprire l’ennesimo “regalo” di Jay: un secondo bambino.

Questa volta mi ripromisi che nessuno me l’avrebbe tolto. Ancora una volta avevo torto: quando la polizia mi scovò, capii quanto in là mi ero spinta. Avevo ucciso un uomo e poco importava che fosse un sadico bastardo: ero un’assassina.

Non provai nemmeno a difendermi e so che commisi uno sbaglio: io avevo il diritto ad ogni attenuante per ciò che avevo passato. Ma mi vergognavo troppo: ero stata maltrattata, violentata, brutalizzata, la mia psiche era a pezzi così come la mia autostima, ero stata così sciocca da credere alle promesse di un violento.

Accettai la mia condanna all’ergastolo: io ero colpevole, Jay una vittima. L’ennesimo sberleffo del mio destino.

Che fine aveva fatto la vecchia me? La ragazza che non credeva all’amore? Non lo so. Credo sia morta col primo schiaffo. Ora so per certo che l’amore non esiste, ma prima non avevo mai avuto la benché minima idea di cosa fosse il mondo.

Passai in galera gli ultimi mesi della gravidanza, in attesa di processo, e poi i primi tre anni con la mia bambina, Olivia.

Ricorderò per sempre il suo terzo compleanno, l’anniversario della sua nascita e l’ultima beffa del destino, quando gli assistenti sociali me la portarono via. Ora mia figlia vive con una vera famiglia, che la ama. Non si ricorda chi io sia ed è meglio così. La mia vita è troppo piena di vergogna perché anche mia figlia ne sia sporcata. Ogni decisione, ogni errore, ogni singola violenza sono testimoni silenti della mia esperienza.

Ho amato Jay? Assolutamente sì.

Ho fatto bene? Non so dirlo. Probabilmente no.


Tragedia in Tre Atti: Atto II, Scena II- Fuggire

Rating: Arancione
Lunghezza: Long-fic
Fandom/Sezione: Drammatico
Genere: Angst, Drammatico,  Introspettivo, Triste
Avvertimenti: Bad Ending, Contenuti forti, Death, Tematiche delicate, Violenza, Whump
Coppie: Het


I seguenti due anni da quel maggio passarono lenti, seguendo una perversa routine: lavoro, il più possibile, casa e botte.

Ogni tanto finivo in ospedale, ma mi rifiutavo di ammettere la realtà. Perché ammetterla significava ammettere una debolezza imperdonabile, non solo per me stessa, ma per il resto della società. Una reietta.

Avevo odiato l’amore, per poi desiderarlo ed ora tornavo ad odiarlo. Odiavo Jay, che mi aveva illusia e tradita, odiavo me stessa, per la mia debolezza, odiavo gli altri, perché avrebbero potuto aiutarmi, perché sapevano, ma non fecero nulla. Rimasi vittima della mia vergogna e del menefreghismo altrui, ma ancor più di quell’amore non corrisposto.

Egli era ossessionato da me, ma non innamorato: non potevo più mettere gonne, uscire con altri uomini e tanto meno con le mie poche amiche, dovevo riferirgli ogni mia singola spesa nonostante fossi io quella che guadagnava e se per disgrazia spendevo più di quanto mi fosse dovuto, la punizione erano botte tanto forti da lasciarmi doloranti anche le ossa. Dovevo riferire al mio amante-aguzzino ogni singolo passo, ogni singola parola… ad un certo punto prese ad accusarmi di tradirlo e finì per tagliarmi ogni sostentamento. Ogni singolo centesimo che mi ero guadagnata finiva nelle sue tasche ed era Jay a decidere quando e quanto denaro darmi. Ero diventata succube di quel mostro aitante e non riuscivo più ad uscirne.

Fino a quando non ne ebbi abbastanza: racconti alcuni vestiti e un paio di libri, scappai, recandomi alla stazione di polizia più vicina.

I poliziotti non ebbero nemmeno bisogni di chiedermi cosa mi fosse successo: la mia faccia tumefatta parlava da sé. Avevo visto la gente voltare la faccia per strada o indicarmi, avevo visto la loro indifferenza, lo schifo e la pietà. Ero stanca.

Denunciai Jay e chiesi aiuto: uno dei poliziotti, una donna sulla quarantina dall’aria navigata mi accompagnò in una casa per donne maltrattate e io credetti davvero di rinascere. Avevo lasciato il mio aguzzino, l’avevo denunciato, non poteva farmi più niente, no?

No, sbagliavo. Non so come, mai Jay riuscì a rintracciarmi: si piazzava sotto la mia finestra ad orari improponibili, urlando all’inizio minacce, poi implorando il mio perdono, dicendo che si sentiva perso, senza di me. Più volte minacciò di suicidarsi, mi urlò che mi amava.

La mia fuga durò tre settimane: alla fine della terza ritirai la denuncia e tornai a casa. Ricorderò per sempre quello che la poliziotta gentile che mi aveva portata al rifugio mi disse: “non lo faccia. Uomini come quello non cambieranno mai, per quanto promettano.

Ancora oggi mi rammarico per non averla ascoltata, perché aveva ragione: il benvenuto del mio amore fu una razione di botte, onde evitare che ci riprovassi. Ma ormai ero entrata anima e corpo in quel sadico meccanismo.

Persi il lavoro qualche mese dopo e finì in ospedale per diversi giorni, con un braccio rotto. Poi fu la volta di quella volta in cui gli avevo accidentalmente stinto la camicia preferita, poi la cena che “era troppo salata”, le ciabatte non in ordine, la spesa “troppo costosa”, la birra che non era arrivata abbastanza in fretta…

Stavo sempre peggio per quella vita: ne avevo cercata una lontana da quella famiglia finta e vuota ed ora ero finita intrappolata in un incubo che non augurerei nemmeno al mio peggior nemico.

E alla fine capì che dovevo andarmene. Dovevo essere forte, smetterla con quell’amore malato, scappare il più lontano possibile, rifarmi una vita. Lo capì troppo, troppo tardi, quando dopo l’ennesimo pestaggio, persi il mio bambino.

Amavo la mia creatura, l’avevo amata fin da subito, quando il medico mi aveva comunicato la gravidanza. Non era stata certo concepita in modo tradizionale, con una madre e un padre che si amavano, pronti a metter su una famiglia da pubblicità della Mulino Bianco o da telefilm degli anni 50: madre perfetta casalinga, fresca di messa in piega e con abitini che potevano calzare a pennello solo ad una modella e padre impiegato di banca, amante del golf e dei maglioncini portati attorno alle spalle.

Il mio bambino sarebbe venuto al mondo da un musicista fallito e violento e da una ragazza bruttina e sottomessa, ma l’avrei amato.

Jay non fu felice, per niente, ma rinunciò a farmi abortire: me n’ero accorta troppo tardi e non si poteva far più nulla. Se avevo mai sperato che il mio fidanzato cambiasse, mi dovetti ricredere: era più irritabile del solito e decisamente più violento; mi picchiava sempre più spesso, incurante del figlio che portavo in grembo. Non il figlio di qualcun altro. Il suo.

Un calcio di troppo. Uno stupido calcio di troppo, io che ne avevo sopportato di ogni e mi era stato strappato anche mio figlio.

Avevo tanto sognato di stringere tra le braccia il mio bambino, ed invece il medico mi mise in braccio un cadaverino sottopeso.

Se mi era rimasto un po’ di amore per Jay, quello venne seppellito assieme a mio figlio. E al suo posto nacque un odio prepotente, che mi consumava lentamente, mese dopo mese, mentre il dolore folle che mi aveva colta dopo la morte del mio piccolo Leo lasciava il posto alla sete di vendetta: una sera lo colpì violentemente con una padella, riempì una borsa, rubai i miei risparmi e scappai. Speravo di averlo ucciso e, come confermarono i fatti, fu così.


Tragedia in Tre Atti: Atto II, Scena I- Dramma

Rating: Arancione
Lunghezza: Long-fic
Fandom/Sezione: Drammatico
Genere: Angst, Drammatico,  Introspettivo, Triste
Avvertimenti: Bad Ending, Contenuti forti, Death, Tematiche delicate, Violenza, Whump
Coppie: Het


Iniziai ad uscire con Jay circa sei mesi dopo averlo conosciuto: si era attirato la mia simpatia coi suoi modi di fare e le sue osservazioni… o forse con la sua bellezza.

Più avanti avrei capito che le sue osservazioni “argute” erano in realtà banali e vuote di riflessione e logica e che la sua musica, oltre che sterile, era anche tecnicamente pessima.

All’inizio si era dimostrato un ragazzo affettuoso, dolce, pacato e romantico, mi portava fuori il più spesso possibile: concerti, ristorantini, passeggiate, festival e manifestazioni, ogni occasione era buona per stare assieme.

C’era sempre qualcosa da fare, qualcosa da vedere, fiori, regali e biglietti, canzoni scritte per me e attenzioni. Mi innamorai follemente di lui ed iniziai a rivedere anche le mie idee sull’amore, che iniziarono a parmi fin troppo ciniche e cattive: forse davvero le ragazze banali potevano attirare l’attenzioni di perfetti e talentuosi adoni o educati e poetici gentleman.

E io ero e sono la quint’essenza della banalità: capelli castani (no, non color mogano, né castano dorato, né dai riflessi color miele: castani, stop), che si aggrovigliano in una matassa riccia e crespa indefinita; pelle abbronzata, ma non dorata come quelle delle attrici di film per adolescenti: un marroncino chiaro, tipico delle popolazioni mediterranee, un po’ slavato per la mia tendenza a chiudermi in casa con un buon libro, invece che indossare flip flop e bikini e passeggiare sulla spiaggia assolata; fisico un filino troppo sovrappeso, tette poche, sedere tanto. Non ero una bellezza hollywoodiana, di certo, ma l’idea che Jay mi trovasse attraente mi fece sentire la Bella Swan della situazione.

Quello fu un errore, uno dei tanti che commisi, con lui e che avrebbe irrimediabilmente segnato la mia vita.

Penso fosse maggio, quando, per la prima volta, ebbi una dimostrazione di chi fosse veramente Jay. Sì, doveva essere maggio, poiché ricordo che era una giornata bellissima e le temperature erano decisamente al disopra delle medie stagionali: insomma, quel genere di giorni che ti ispirano buon umore e in cui non può accadere nulla di cattivo per forza di cose.

Almeno questo era il mio pensiero.

Jay, ormai ufficialmente il mio ragazzo, dopo quattro mesi di uscite, era venuto a vivere da me e quella mattina avevo deciso di preparargli la colazione.

Mi ci misi d’impegno, padellando e ascoltando la radio, che trasmetteva le ultime hit o pezzi storici… che sciocchezze sto scrivendo… non ricordo nulla del mio sedicesimo compleanno, nemmeno la torta, ma ricordo ogni insignificante dettaglio di quella mattina.

Ad un certo punto Jay si alzò, entrando in cucina e sedendosi al tavolo, senza salutare.

La sera prima era tornato tardi, ufficialmente lui e i suoi amici si erano fermati fino a tardi da uno di loro…

Ricordo che l’emittente radofonica mise su “Keep me hanging on” di Kim Wilde. Feci una battuta spiritosa… qualcosa come “adesso non si usa più salutare?”, insomma, cose che mi diceva mia nonna quando avevo quattro anni.

Poi ho un black out di diverse ore. So per certo che Jay mi picchiò fino a farmi perdere i sensi e poi mi portò in ospedale, dove mi diagnosticarono due costole incrinate. So per certo che raccontai, terrorizzata e ancora spaventata di essere caduta dalle scale. So per certo che ero scesa a patti col mio nemico per la prima volta e che a quella ne sarebbero succedute delle altre, moltissime altre.

Da ragazzina avevo sempre disprezzato quelle donne che si facevano maltrattare e mettere i piedi in testa dagli uomini. Per me anche già il solo far decidere agli uomini dei propri figli era un segno di inammissibile debolezza in una madre; era per me inammissibile essere un soprammobile che accrescesse lo sfarzo del focolare domestico, come lo era stata mia madre, ma farsi picchiare o violentare da un uomo… no, quello, nella mia mente di ragazza benestante e beneducata, era molto peggio. Significava essere deboli, indegne di essere considerate donne.

Mi era stato inculcato, come è stato per molti altri giovani prima di me e per come sarà per molti altri dopo la mia generazione, che quelle donne erano donne sbagliate: queste cose succedevano solo a ragazze di dubbia morale o forza mentale. Di botto, venni catapultata nella più atroce realtà.

E l’abbassarmi a coprire Jay non fu segno di scarsa morale: fu paura, istinto di sopravvivenza e soprattutto, una disperata voglia di non vedere. Nonostante le costole doloranti, i lividi e le escoriazioni, non volevo –né potevo– ammettere che l’uomo di cui mi ero follemente e stupidamente innamorata fosse un violento. Archiviai l’episodio come incidente e la vita riprese.

Forse, se fossi stata più esperta, avrei fatto armi e bagagli subito, cambiato città e gettato il telefonino nel primo cestino. Non lo feci e ben presto alle mie spese se ne aggiunse  una fissa: il fondotinta, che mai avevo usato prima e che ora mi serviva per mascherare il fiorire di fiori violetti e giallognoli sulla mia pelle.