Note d’Autrice
Prima di iniziare, data la delicatezza delle tematiche trattate, mi sembra doveroso fare alcuni chiarimenti, alcuni di buon senso, altri probabilmente funzionali alla comprensione delle storie -in realtà sono solo logorroica, ma fingete di prendermi sul serio-.
Per quanto si faccia e si dica per ridurre lo stigma che colpisce le persone che soffrono di una qualche forma di disturbo, questo è terribilmente radicato nella mentalità popolare, con tutta la carica di sofferenza extra per pazienti e familiari che questo comporta.
Molte persone che riconoscono di avere una qualche problematica sono spinte a non cercare l’aiuto specialistico di cui necessitano per la paura della discriminazione sociale o di perdere la famiglia o il lavoro; molti nascondono la loro condizione e le famiglie e gli amici possono arrivare a rifiutare i loro cari sofferenti.
L’accesso alle cure e ai farmaci, le decisioni rispetto alla terapia e allo stile di vita, tutto diventa una sfida che deve non solo tenere conto delle logiche familiari e delle caratteristiche del disturbo, ma anche del giudizio degli altri e delle politiche dello Stato.
Questa raccolta parla proprio di loro, dei protagonisti tendenzialmente silenziosi dello stigma, della difficoltà; ognuno coi drammi, i dubbi, i problemi che comporta vivere con un nemico così ambiguo ed inafferrabile e con una società che spesso condanna e non supporta. Alle prese con decisioni difficili, con paure paralizzanti, con sofferenze a volte indicibili e non solo inenarrabili.
NOTA BENE:
-La seguente storia NON riporta storie di persone reali, ma solo fatti verosimili o liberamente ispirati a situazioni realmente avvenute.
-Qualsiasi descrizione della sintomatologia e dell’eziologia dei disturbi mentali presentati nei seguenti capitoli è, per quanto accurata, a mero scopo narrativo; in nessun momento la seguente raccolta può sostituire il parere di un medico psichiatra o di uno psicologo.
Altresì è sconsigliato, nel caso vi ritroviate nelle descrizioni delle patologie, di affidarsi a questionari reperiti su Internet per avere una conferma della vostra autodiagnosi: quei test possono solo essere indicativi e non sostituiscono un esperto [e detta tra noi, tendenzialmente sbagliano alla grande].
-Per una serie di questioni -di natura stilistica, ma anche correlate alla sintomatologia o alle problematiche a cui vorrei dar risalto-, i narratori dei disturbi considerati tipicamente infantili saranno tendenzialmente -ma non unicamente- i genitori.
-Per questioni sia di fruibilità che di metodologia, ho scelto di scrivere solo di quei disturbi ufficialmente riconosciuti dalla psichiatria ed elencati nell’ultima edizione del DSM -ad eccezione di alcune categorie diagnostiche ancora estremamente dibattute-. Chiaramente non tratterò tutti i disturbi, ma sceglierò quelli più rappresentativi delle varie sezioni oppure i casi prototipici che colorano la fantasia popolare -ma sempre basandomi sulla conoscenza oggettiva di quel disturbo e alle informazioni che possono reperire. Per dire, molti disturbi della sfera sessuale per me sono semplici nomi sulle pagine del DSM perché non li ho mai trovati interessanti. My bad-.
C14H19NO2
Sciaff!
Crack!
Cate aggiunse alla lista un altro negozio dove non avrebbe mai messo piede, mentre raggiungeva il figlio, pronta al solito teatrino.
Acchiappa il bambino e calmalo.
Calma proprietari e commessi.
Rimborsa l’oggetto fatto a pezzi da Tommy.
Scappa alla velocità della luce.
Tutto in rapida sequenza, ad occhi bassi, sperando di non essere riconosciuta da nessuno; era già abbastanza penoso vivere quelle situazioni, non era decisamente il caso di subire una doppia umiliazione e di diventare il pettegolezzo del giorno. Tanto, a farla sentire la madre di merda dell’anno ci pensavano puntualmente gli sguardi di tutti i presenti, fissi su di loro, su quella madre incapace e quel bambino maleducato.
All’inizio aveva provato anche a spiegarsi, a giustificare suo figlio; non le andava giù che lo giudicassero così duramente per qualcosa che non poteva ancora controllare, che lo vedessero solo come il suo disturbo.
“Ha l’ADHD, non è colpa sua.”
Be’, non aveva mai funzionato, non aveva mai ricevuto comprensione o solidarietà, ma solo una dubbiosa pietà o sguardi di disprezzo, come se fosse una scusa per il suo non saper gestire il bambino. Qualche psichiatra in borghese le aveva consigliato due bei schiaffoni oppure di farlo vedere.
Maddai, genio. Perché il neuropsichiatra ha la bacchetta magica, no? Guarisce con l’imposizione delle mani, stronzo?
Ma questo lo pensava sempre dopo, perché, in realtà, quando glielo dicevano le veniva da piangere.
-Tommy, allacciati la cintura! Tommaso, ‘sta fermo, non vedo!
Un mantra: “Tommy, ‘sta fermo“.
La diagnosi era stata un fulmine a ciel sereno, ma col senno di poi avrebbe dovuto aspettarselo: era sempre stato così attivo, un po’ distratto, incapace di star seduto troppo a lungo, spesso agitato, facile nel prender rabbia… Peccato che il senno di poi non avesse mai aiutato nessuno e che quando il neuropsichiatra aveva comunicato loro la diagnosi, aveva sentito un dolore sordo al petto e le era montata la nausea. Se non fosse stata seduta, sarebbe finita per terra.
Suo marito era entrato in negazione e ci era rimasto per mesi: Luca non concepiva nemmeno per sbaglio l’idea che Tommy non fosse normale, che non era una fase, che non era solo un bambino un po’ attivo ed ingenuo. Per lui era stato un vero e proprio lutto, la perdita di tutte le speranze e di tutti i piani che aveva fatto per loro figlio.
All’inizio Cate l’aveva capito, l’aveva tollerato; anche lei soffriva, anche lei si dibatteva negli “e se…“, ma poi erano entrati in rotta di collisione.
“Quello si è sbagliato, portiamolo da un altro medico!”
Quello era uno dei migliori nel suo campo in Italia e sicuramente non potevano permettersi di portarlo da un altro medico, magari privatamente.
“Mio figlio non è pazzo.”
Ed infatti ha l’ADHD, ha un disturbo del neurosviluppo. Non è pazzo.
“Magari se passasse più tempo con gli altri bambini e meno con te…”
Chiaramente ora era colpa sua. Si sa, no, è sempre colpa della mamma…
“Mia madre dice che è solo viziato…”
Giusto, la signora Marina, nota esperta a livello mondiale di ADHD.
“No, guarda, proprio non ho il tempo di prenderlo a scuola/passarci del tempo assieme.”
Come tutti i giorni da quasi un anno a questa parte e quindi quella terribile zavorra ricadeva solo su di lei: andare a prenderlo a scuola, parlare quasi tutti i giorni con le maestre, portarlo a fare terapia –sempre troppo poco rispetto a quello di cui aveva bisogno, ma di più non potevano permetterselo-.
Il momento peggiore, comunque, era la spesa: un campo di battaglia, una guerra persa a priori, alla fine dell’operazione sul campo andavano contati feriti e dispersi.
Era stato proprio il primo argomento di cui aveva parlato al gruppo di sostegno per i genitori e per la prima volta si era sentita compresa: non era più una madre incapace, non era più una stronza –termine che Tommy aveva sentito chissà dove e che amava usare contro di lei durante gli scatti di rabbia-, era di nuovo una persona.
Gli altri genitori avevano annuito e borbottato, le avevano manifestato simpatia e vicinanza, avevano anche tentato di darle dei consigli.
Si era finalmente sentita bene.
Il viaggio in macchina era stato all’insegna del silenzio, visto che il signorino sul sedile posteriore si era chiuso in un mutismo ostinato.
A volte doveva farsi violenza per non urlargli contro, per ricordarsi che era normale, che Tommy aveva anche un disturbo oppositivo provocatorio come moltissimi altri bambini con l’ADHD, che era un pochino permaloso… ma la necessità di urlargli addosso non diminuiva e lei si sentiva terribilmente in colpa, perché solo un genitore di merda può alterarsi per la malattia del proprio figlio.
Quel senso di inadeguatezza non la lasciava mai e, anzi, andava crescendo: non era una buona madre, non andava bene per Tommy, non era abbastanza preparata, abbastanza pronta, abbastanza comprensiva. Riassumendo: non era abbastanza e suo figlio meritava almeno una mamma nei limiti della decenza, peccato che lei, Cate, fosse quello che passava il convento.
Il primo, grande errore commesso era stato quello di parlare con le maestre.
Un errore madornale e non se lo sarebbe mai perdonata.
La maestra Giulia, una maestrina giovanissima ma decisamente informata sull’argomento, era stata una vera manna dal cielo e aveva tentato di rassicurarla, spiegandole che con il dovuto supporto anche Tommaso avrebbe potuto ottenere risultati scolastici dignitosi. Lì, aveva toccato il cielo con un dito.
Peccato che la maestra Fabiana avesse spifferato tutto al gruppo delle mamme-perfette-e-sempre-sul-pezzo prima che venisse decisa una strategia d’azione; nel giro di un paio di giorni tutti sapevano che nella 1°C c’era un bambino problematico –handicappato, come certi soggetti pieni di tatto lo avevano definito-. In una settimana, erano risalite pure all’identità e Tommy non era stato più invitato alle feste di compleanno.
Il dolore nel vederle escludere suo figlio aveva superato persino la rabbia per l’accaduto e la lievissima sete di sangue che aveva provato.
“Succede anche con Giada, Cate.”
“E con Sofia.”
“Non parliamo di Giacomo… ormai ha pure smesso di chiedere perché non lo invitano…”
“Ho paura che faranno lo stesso con Martina…”
E anche quella volta, contro ogni pronostico e contro ogni buonsenso, si era sentita bene: non erano lei e Tommy contro il mondo, c’erano altri come loro, altri pronti ad aiutarli e a condividere le loro esperienze… ma a casa erano un altro paio di maniche.
Lei e Luca avevano litigato per settimane per l’accaduto, lui l’accusava di essere stata un’irresponsabile, di aver segnato a vita il figlio –”Ti rendi conto che ora sarà sempre un handicappato per tutti?!“-, di volere la via facile –quale via facile?!-; Cate, dal canto suo, gli aveva vomitato addosso mesi di rabbia e solitudine: l’aveva lasciata sola a gestire Tommy, si era chiuso nel suo dolore ignorando quello che provava lei, non l’aveva supportata in quello che stavano passando e, come se non fosse già abbastanza, aveva permesso ai suoi genitori di dar libero sfogo alla loro ignoranza.
Sembravano due grossi grizzly che lottavano all’ultimo sangue, ognuno deciso a spuntarla, ad aver ragione dell’altro sputando tutto il veleno che si erano tenuti dentro.
-Tommy, mi dai una man…? Sì, vabbé, ciao.
Suo figlio già sfrecciava su per le scale, con la mente proiettata alla tv che avrebbe accesso, guardato per qualche minuto e poi abbandonato per fare altro; le borse contenenti i loro acquisti toccavano tutte a lei.
Suo suocero le avrebbe detto che non aveva abbastanza polso: “Ah, ai miei tempi i bambini si correggevano con due cinghiate. Altro che tutte queste scuse per non educarli, vedevi come venivano su sani, prendi me e i miei figli”.
Ai tempi dei dinosauri sicuramente, si diceva Cate, ma sui risultati… be’, se la famiglia punizioni-corporali-ma-perfetti era il massimo che si poteva pretendere, il metodo era decisamente fallimentare…
Tommy l’aspettava sul pianerottolo; il berretto di lana gli copriva anche parte della fronte, ma qualche ciuffo di capelli neri era riuscito a sfuggire e a ricadergli sugli occhi scuri e profondi. Aveva le guance arrossate per la corsa e un mezzo sorriso sbarazzino… poteva giurare di avergli visto quello stesso sorriso la prima volta in cui l’aveva tenuto in braccio.
-Dai, mamma, apri la porta! Sei lenta come una lumaaaaacaaaaa.
La donna lo avvolse in un abbraccio e gli lasciò tanti baci sul visetto accaldato.
-Ma io sono una lumaca bavosaaaa! Supplica pietà!
-Naaaaa, che schifo! Bava!
-Supplica pietà!
-Pietà! Pietà!
Era quei momenti, quelli in cui Tommy si dibatteva contro di lei e ricambiava il suo affetto, accettando quei giochi un po’ scemi, quelli in cui ridevano assieme a darle la forza di sopportare l’ADHD ed il resto del mondo.
La cena era sul fuoco, Tommy stava disegnando –una delle poche attività che riusciva a tenerlo moderatamente fermo su una sedia- e Cate poteva godersi qualche minuto di pausa.
Prese il portatile e lo accese; ci mise millenni a caricare e la donna si appuntò mentalmente di dargli una controllata appena ne avesse avuto il tempo.
Cliccò sull’icona del brower, prese un profondo respiro e digitò “Ritalin”.
“Il ritalin mi ha salvato. Ora Camilla è molto più calma, anche i voti sono migliorati, possiamo persino uscire di casa…”
“Praticamente droghi tua figlia per farla stare buona.”
“No, le do una medicina sicura che la fa star meglio e le rende possibile avere una vita normale!”
Dopo un paio di mesi nel gruppo di mutuo aiuto, aveva scoperto che le liti sull’uso dei farmaci erano all’ordine del giorno; esistevano due fazioni: i pro, quelli a cui il ritalin aveva salvato prole, vita e matrimonio e i contro, che affermavano che si trattava di droghe per rimbambire i bambini.
Un paio di vecchie leve del gruppo, i cui figli erano adolescenti, l’avevano introdotta all’argomento, dandole una specie di fascicoletto illustrativo e parlandole dell’epoca in cui, essendo il farmaco proibito in Italia, organizzavano vere e proprie azioni di contrabbando dalla Svizzera –dove era invece legale- pur di procurarsene abbastanza per i propri figli.
“Non devi sentirti obbligata, ma è un’opzione. Soprattutto… be’, so che hai problemi con la terapia, per via dei soldi.”
“Cate, non credo che possiamo più starci dentro con la terapia per Tommy.”
Sì, l’avere un solo stipendio che finiva praticamente tutto nelle mani della psicoterapeuta del bambino non aiutava molto le finanze di famiglia e lo Stato non aiutava, perché suo figlio non era invalido e quindi la terapia era a loro spese.
“Sai, con Giulia ho avuto lo stesso problema… poi, be’, siamo riusciti a far approvare il ritalin e da allora sta meglio. Va bene a scuola. Dovresti pensarci, Cate.”
Aveva detto di sì, che doveva pensarci.
Non lo aveva fatto.
Non aveva voluto.
Non se l’era sentita di dare a Tommy quella medicina, di bollarlo come definitivamente malato, di dargli qualcosa che chissà che effetti collaterali poteva avere! Era pur sempre sua madre, per dio, una soluzione l’avrebbe trovata.
Ma il tempo passava e vedeva sempre di più il Tommy adolescente dei suoi incubi, lo guardava e sentiva le voci degli altri genitori: di quelli della scuola, che lo chiamavano handicappato e di quelli del gruppo.
“A volte guardo Andrea, soprattutto quando si arrabbia ed inizia a sbraitare e a lanciare tutto e vedo quello che diventerà. Lo vedo fare avanti e indietro dalla galera, perché se ti comporti così e non studi che altre alternative hai?”
“Con Nicole è un incubo… io non so che fine farà, a scuola va malissimo e a volte la vedi… si attacca come una cozza alle persone e non so se sia normale… ho paura che finisca con qualche poco di buono.”
“Giacomo ha morso un suo compagno di classe… non riesco a chiudere occhio, ho sempre paura che mi suonino gli assistenti sociali alla porta.”
E la loro voce, la sua e quella di Luca, quando la sera si chiedevano cosa avrebbe fatto Tommy nella vita. Sarebbe stato nel 50% fortunato di casi in cui il disturbo scompare nell’età adulta? E se così non fosse stato? I suoi scatti di rabbia e i comportamenti aggressivi sarebbero peggiorati o diminuiti? Chi era quell’estraneo rabbioso e frustrato che tornava da scuola urlando di non volerci più andare? Avrebbe mai avuto un amico? Se non potevano più permettersi la terapia cosa avrebbero fatto –e col cavolo che potevano permettersela, iniziava ad essere un costo eccessivo-?
A convincerla era stato proprio suo marito, la sera prima.
“Cate… io me lo vedo già in riformatorio.”
Il Tommy immaginario, quasi adulto, con un accenno di barba e i capelli neri e mossi dietro le sbarre la guardava male, gli occhi scuri erano due pozze di odio, delusione e biasimo, quasi a dirle che era solo colpa sua.
Il campanello di casa suonò e Tommy ritornò ad essere un bambino che colorava, con le mani e persino la faccia inguaiate di pennarello. Sereno, anche se pieno di casini. Era ancora il suo bambino paffuto con la passione per i dinosauri.
-Tommy, fammi un favore, apri a papà.
“Cate… io me lo vedo già in riformatorio.”
“A volte guardo Andrea, soprattutto quando si arrabbia ed inizia a sbraitare e a lanciare tutto e vedo quello che diventerà. Lo vedo fare avanti e indietro dalla galera, perché se ti comporti così e non studi che altre alternative hai?”
“Con Nicole è un incubo… io non so che fine farà, a scuola va malissimo e a volte la vedi… si attacca come una cozza alle persone e non so se sia normale… ho paura che finisca con qualche poco di buono.”
“Giacomo ha morso un suo compagno di classe… non riesco a chiudere occhio, ho sempre paura che mi suonino gli assistenti sociali alla porta.”
“Sai, con Giulia ho avuto lo stesso problema… poi, be’, siamo riusciti a far approvare il ritalin e da allora sta meglio. Va bene a scuola. Dovresti pensarci, Cate.”
“Il ritalin mi ha salvato. Ora Camilla è molto più calma, anche i voti sono migliorati, possiamo persino uscire di casa…”
“Praticamente droghi tua figlia per farla stare buona.”
“Ah, ai miei tempi i bambini si correggevano con due cinghiate. Altro che tutte queste scuse per non educarli, vedevi come venivano su sani, prendi me e i miei figli”.
“Ha l’ADHD, non è colpa sua.”
“Succede anche con Giada, Cate.”
“Non devi sentirti obbligata, ma è un’opzione. Soprattutto… be’, so che hai problemi con la terapia, per via dei soldi.”
“Cate, non credo che possiamo più starci dentro con la terapia per Tommy.”
“Cate… io me lo vedo già in riformatorio.”
La donna prese un profondo respiro.
-Luca, per favore, verresti di là? Dobbiamo parlare.- disse Cate, prendendo dalla libreria il fascicoletto sul Ritalin.
N.d.A.
Credo sia doveroso fare alcune precisazioni alla fine di questo capitolo: Cate, Tommy e Luca non esistono, ma ho deciso di far vivere loro l’agonia che molte famiglie di bambini con l’ADHD vivono.
La mancanza di mezzi che garantiscano cure adeguate ai figli, l’a volte obbligatorio ricorso al Ritalin –che non è sempre necessario- e l’abbandono della psicoterapia, il timore per il futuro dei figli, i gruppi di mutuo soccorso, lo stigma in ambito scolastico e, ultimo ma non ultimo, il continuo giudizio negativo a cui i genitori sono sottoposti: non sono i genitori di bambini con problematiche particolari, sono solo genitori incapaci.
Sia chiaro, non sto giudicando assolutamente chi decide di usare i farmaci, lungi da me farlo, perché so quanto possano essere essenziali in determinati casi: il mio intento era quello di sottolineare la solitudine e la mancanza di supporto da parte della società che queste famiglie devono affrontare.
*Il titolo fa riferimento alla formula bruta del Ritalin.