Tragedia in Tre Atti: Atto III- Addii

Rating: Arancione
Lunghezza: Long-fic
Fandom/Sezione: Drammatico
Genere: Angst, Drammatico,  Introspettivo, Triste
Avvertimenti: Bad Ending, Contenuti forti, Death, Tematiche delicate, Violenza, Whump
Coppie: Het


Riuscì ad arrivare in Germania prima che la polizia mi trovasse. Rimasi nascosta in un appartamento affittato a settimana, pagando in contanti per non farmi trovare per quasi tre mesi. Per me furono abbastanza per scoprire l’ennesimo “regalo” di Jay: un secondo bambino.

Questa volta mi ripromisi che nessuno me l’avrebbe tolto. Ancora una volta avevo torto: quando la polizia mi scovò, capii quanto in là mi ero spinta. Avevo ucciso un uomo e poco importava che fosse un sadico bastardo: ero un’assassina.

Non provai nemmeno a difendermi e so che commisi uno sbaglio: io avevo il diritto ad ogni attenuante per ciò che avevo passato. Ma mi vergognavo troppo: ero stata maltrattata, violentata, brutalizzata, la mia psiche era a pezzi così come la mia autostima, ero stata così sciocca da credere alle promesse di un violento.

Accettai la mia condanna all’ergastolo: io ero colpevole, Jay una vittima. L’ennesimo sberleffo del mio destino.

Che fine aveva fatto la vecchia me? La ragazza che non credeva all’amore? Non lo so. Credo sia morta col primo schiaffo. Ora so per certo che l’amore non esiste, ma prima non avevo mai avuto la benché minima idea di cosa fosse il mondo.

Passai in galera gli ultimi mesi della gravidanza, in attesa di processo, e poi i primi tre anni con la mia bambina, Olivia.

Ricorderò per sempre il suo terzo compleanno, l’anniversario della sua nascita e l’ultima beffa del destino, quando gli assistenti sociali me la portarono via. Ora mia figlia vive con una vera famiglia, che la ama. Non si ricorda chi io sia ed è meglio così. La mia vita è troppo piena di vergogna perché anche mia figlia ne sia sporcata. Ogni decisione, ogni errore, ogni singola violenza sono testimoni silenti della mia esperienza.

Ho amato Jay? Assolutamente sì.

Ho fatto bene? Non so dirlo. Probabilmente no.


Tragedia in Tre Atti: Atto II, Scena II- Fuggire

Rating: Arancione
Lunghezza: Long-fic
Fandom/Sezione: Drammatico
Genere: Angst, Drammatico,  Introspettivo, Triste
Avvertimenti: Bad Ending, Contenuti forti, Death, Tematiche delicate, Violenza, Whump
Coppie: Het


I seguenti due anni da quel maggio passarono lenti, seguendo una perversa routine: lavoro, il più possibile, casa e botte.

Ogni tanto finivo in ospedale, ma mi rifiutavo di ammettere la realtà. Perché ammetterla significava ammettere una debolezza imperdonabile, non solo per me stessa, ma per il resto della società. Una reietta.

Avevo odiato l’amore, per poi desiderarlo ed ora tornavo ad odiarlo. Odiavo Jay, che mi aveva illusia e tradita, odiavo me stessa, per la mia debolezza, odiavo gli altri, perché avrebbero potuto aiutarmi, perché sapevano, ma non fecero nulla. Rimasi vittima della mia vergogna e del menefreghismo altrui, ma ancor più di quell’amore non corrisposto.

Egli era ossessionato da me, ma non innamorato: non potevo più mettere gonne, uscire con altri uomini e tanto meno con le mie poche amiche, dovevo riferirgli ogni mia singola spesa nonostante fossi io quella che guadagnava e se per disgrazia spendevo più di quanto mi fosse dovuto, la punizione erano botte tanto forti da lasciarmi doloranti anche le ossa. Dovevo riferire al mio amante-aguzzino ogni singolo passo, ogni singola parola… ad un certo punto prese ad accusarmi di tradirlo e finì per tagliarmi ogni sostentamento. Ogni singolo centesimo che mi ero guadagnata finiva nelle sue tasche ed era Jay a decidere quando e quanto denaro darmi. Ero diventata succube di quel mostro aitante e non riuscivo più ad uscirne.

Fino a quando non ne ebbi abbastanza: racconti alcuni vestiti e un paio di libri, scappai, recandomi alla stazione di polizia più vicina.

I poliziotti non ebbero nemmeno bisogni di chiedermi cosa mi fosse successo: la mia faccia tumefatta parlava da sé. Avevo visto la gente voltare la faccia per strada o indicarmi, avevo visto la loro indifferenza, lo schifo e la pietà. Ero stanca.

Denunciai Jay e chiesi aiuto: uno dei poliziotti, una donna sulla quarantina dall’aria navigata mi accompagnò in una casa per donne maltrattate e io credetti davvero di rinascere. Avevo lasciato il mio aguzzino, l’avevo denunciato, non poteva farmi più niente, no?

No, sbagliavo. Non so come, mai Jay riuscì a rintracciarmi: si piazzava sotto la mia finestra ad orari improponibili, urlando all’inizio minacce, poi implorando il mio perdono, dicendo che si sentiva perso, senza di me. Più volte minacciò di suicidarsi, mi urlò che mi amava.

La mia fuga durò tre settimane: alla fine della terza ritirai la denuncia e tornai a casa. Ricorderò per sempre quello che la poliziotta gentile che mi aveva portata al rifugio mi disse: “non lo faccia. Uomini come quello non cambieranno mai, per quanto promettano.

Ancora oggi mi rammarico per non averla ascoltata, perché aveva ragione: il benvenuto del mio amore fu una razione di botte, onde evitare che ci riprovassi. Ma ormai ero entrata anima e corpo in quel sadico meccanismo.

Persi il lavoro qualche mese dopo e finì in ospedale per diversi giorni, con un braccio rotto. Poi fu la volta di quella volta in cui gli avevo accidentalmente stinto la camicia preferita, poi la cena che “era troppo salata”, le ciabatte non in ordine, la spesa “troppo costosa”, la birra che non era arrivata abbastanza in fretta…

Stavo sempre peggio per quella vita: ne avevo cercata una lontana da quella famiglia finta e vuota ed ora ero finita intrappolata in un incubo che non augurerei nemmeno al mio peggior nemico.

E alla fine capì che dovevo andarmene. Dovevo essere forte, smetterla con quell’amore malato, scappare il più lontano possibile, rifarmi una vita. Lo capì troppo, troppo tardi, quando dopo l’ennesimo pestaggio, persi il mio bambino.

Amavo la mia creatura, l’avevo amata fin da subito, quando il medico mi aveva comunicato la gravidanza. Non era stata certo concepita in modo tradizionale, con una madre e un padre che si amavano, pronti a metter su una famiglia da pubblicità della Mulino Bianco o da telefilm degli anni 50: madre perfetta casalinga, fresca di messa in piega e con abitini che potevano calzare a pennello solo ad una modella e padre impiegato di banca, amante del golf e dei maglioncini portati attorno alle spalle.

Il mio bambino sarebbe venuto al mondo da un musicista fallito e violento e da una ragazza bruttina e sottomessa, ma l’avrei amato.

Jay non fu felice, per niente, ma rinunciò a farmi abortire: me n’ero accorta troppo tardi e non si poteva far più nulla. Se avevo mai sperato che il mio fidanzato cambiasse, mi dovetti ricredere: era più irritabile del solito e decisamente più violento; mi picchiava sempre più spesso, incurante del figlio che portavo in grembo. Non il figlio di qualcun altro. Il suo.

Un calcio di troppo. Uno stupido calcio di troppo, io che ne avevo sopportato di ogni e mi era stato strappato anche mio figlio.

Avevo tanto sognato di stringere tra le braccia il mio bambino, ed invece il medico mi mise in braccio un cadaverino sottopeso.

Se mi era rimasto un po’ di amore per Jay, quello venne seppellito assieme a mio figlio. E al suo posto nacque un odio prepotente, che mi consumava lentamente, mese dopo mese, mentre il dolore folle che mi aveva colta dopo la morte del mio piccolo Leo lasciava il posto alla sete di vendetta: una sera lo colpì violentemente con una padella, riempì una borsa, rubai i miei risparmi e scappai. Speravo di averlo ucciso e, come confermarono i fatti, fu così.


Tragedia in Tre Atti: Atto II, Scena I- Dramma

Rating: Arancione
Lunghezza: Long-fic
Fandom/Sezione: Drammatico
Genere: Angst, Drammatico,  Introspettivo, Triste
Avvertimenti: Bad Ending, Contenuti forti, Death, Tematiche delicate, Violenza, Whump
Coppie: Het


Iniziai ad uscire con Jay circa sei mesi dopo averlo conosciuto: si era attirato la mia simpatia coi suoi modi di fare e le sue osservazioni… o forse con la sua bellezza.

Più avanti avrei capito che le sue osservazioni “argute” erano in realtà banali e vuote di riflessione e logica e che la sua musica, oltre che sterile, era anche tecnicamente pessima.

All’inizio si era dimostrato un ragazzo affettuoso, dolce, pacato e romantico, mi portava fuori il più spesso possibile: concerti, ristorantini, passeggiate, festival e manifestazioni, ogni occasione era buona per stare assieme.

C’era sempre qualcosa da fare, qualcosa da vedere, fiori, regali e biglietti, canzoni scritte per me e attenzioni. Mi innamorai follemente di lui ed iniziai a rivedere anche le mie idee sull’amore, che iniziarono a parmi fin troppo ciniche e cattive: forse davvero le ragazze banali potevano attirare l’attenzioni di perfetti e talentuosi adoni o educati e poetici gentleman.

E io ero e sono la quint’essenza della banalità: capelli castani (no, non color mogano, né castano dorato, né dai riflessi color miele: castani, stop), che si aggrovigliano in una matassa riccia e crespa indefinita; pelle abbronzata, ma non dorata come quelle delle attrici di film per adolescenti: un marroncino chiaro, tipico delle popolazioni mediterranee, un po’ slavato per la mia tendenza a chiudermi in casa con un buon libro, invece che indossare flip flop e bikini e passeggiare sulla spiaggia assolata; fisico un filino troppo sovrappeso, tette poche, sedere tanto. Non ero una bellezza hollywoodiana, di certo, ma l’idea che Jay mi trovasse attraente mi fece sentire la Bella Swan della situazione.

Quello fu un errore, uno dei tanti che commisi, con lui e che avrebbe irrimediabilmente segnato la mia vita.

Penso fosse maggio, quando, per la prima volta, ebbi una dimostrazione di chi fosse veramente Jay. Sì, doveva essere maggio, poiché ricordo che era una giornata bellissima e le temperature erano decisamente al disopra delle medie stagionali: insomma, quel genere di giorni che ti ispirano buon umore e in cui non può accadere nulla di cattivo per forza di cose.

Almeno questo era il mio pensiero.

Jay, ormai ufficialmente il mio ragazzo, dopo quattro mesi di uscite, era venuto a vivere da me e quella mattina avevo deciso di preparargli la colazione.

Mi ci misi d’impegno, padellando e ascoltando la radio, che trasmetteva le ultime hit o pezzi storici… che sciocchezze sto scrivendo… non ricordo nulla del mio sedicesimo compleanno, nemmeno la torta, ma ricordo ogni insignificante dettaglio di quella mattina.

Ad un certo punto Jay si alzò, entrando in cucina e sedendosi al tavolo, senza salutare.

La sera prima era tornato tardi, ufficialmente lui e i suoi amici si erano fermati fino a tardi da uno di loro…

Ricordo che l’emittente radofonica mise su “Keep me hanging on” di Kim Wilde. Feci una battuta spiritosa… qualcosa come “adesso non si usa più salutare?”, insomma, cose che mi diceva mia nonna quando avevo quattro anni.

Poi ho un black out di diverse ore. So per certo che Jay mi picchiò fino a farmi perdere i sensi e poi mi portò in ospedale, dove mi diagnosticarono due costole incrinate. So per certo che raccontai, terrorizzata e ancora spaventata di essere caduta dalle scale. So per certo che ero scesa a patti col mio nemico per la prima volta e che a quella ne sarebbero succedute delle altre, moltissime altre.

Da ragazzina avevo sempre disprezzato quelle donne che si facevano maltrattare e mettere i piedi in testa dagli uomini. Per me anche già il solo far decidere agli uomini dei propri figli era un segno di inammissibile debolezza in una madre; era per me inammissibile essere un soprammobile che accrescesse lo sfarzo del focolare domestico, come lo era stata mia madre, ma farsi picchiare o violentare da un uomo… no, quello, nella mia mente di ragazza benestante e beneducata, era molto peggio. Significava essere deboli, indegne di essere considerate donne.

Mi era stato inculcato, come è stato per molti altri giovani prima di me e per come sarà per molti altri dopo la mia generazione, che quelle donne erano donne sbagliate: queste cose succedevano solo a ragazze di dubbia morale o forza mentale. Di botto, venni catapultata nella più atroce realtà.

E l’abbassarmi a coprire Jay non fu segno di scarsa morale: fu paura, istinto di sopravvivenza e soprattutto, una disperata voglia di non vedere. Nonostante le costole doloranti, i lividi e le escoriazioni, non volevo –né potevo– ammettere che l’uomo di cui mi ero follemente e stupidamente innamorata fosse un violento. Archiviai l’episodio come incidente e la vita riprese.

Forse, se fossi stata più esperta, avrei fatto armi e bagagli subito, cambiato città e gettato il telefonino nel primo cestino. Non lo feci e ben presto alle mie spese se ne aggiunse  una fissa: il fondotinta, che mai avevo usato prima e che ora mi serviva per mascherare il fiorire di fiori violetti e giallognoli sulla mia pelle.

Tragedia in Tre Atti: Atto I- I personaggi in scena

Rating: Arancione
Lunghezza: Long-fic
Fandom/Sezione: Drammatico
Genere: Angst, Drammatico,  Introspettivo, Triste
Avvertimenti: Bad Ending, Contenuti forti, Death, Tematiche delicate, Violenza, Whump
Coppie: Het


 

Atto I- I personaggi in scena

 

La gente pensa sempre che l’amore sia bello, allegro, privo di preoccupazioni. Uno stato delle cose in cui non esiste né dolore né dispiacere, una specie di perfetto -e perverso, a ben vedere- locus amoenus, che ci viene inculcato fin dalla culla. E così, nella nostra infanzia è un susseguirsi di principesse salvate da aitanti principi, personaggi dei cartoni che irrimediabilmente s’innamoreranno dell’eroico protagonista e povere contadinotte elevate a regine da amabili re.

Poi si cresce e si nota che la vita non è così: tranne una trascurabile minoranza, le ragazze non sono alte, bionde, con delle perfette chiome lunghe e lisce oppure arricciate in boccoli perfetti che non si rovineranno nemmeno ad attraversare Trieste con la bora che soffia o ad affrontare l’uragano Katrina.

E allora ecco che le principesse si trasformano in ragazzine impacciate, goffe, per poi rivelarsi bellissime, ammirate, intelligentissime e senza una pecca: mai un capello fuori posto; mai una citazione meno dotta di Jane Austen, ma sempre e rigorosamente romantiche, saltando a piè pari il significato femminista dei libri dell’autrice inglese, o delle sorelle Brönte; mai, assolutamente mai, problemi più seri del non sentirsi accettata quando evidentemente tali personaggi fanno di tutto per rendersi odiosi.

Troppo perfette? Ecco comparire all’orizzonte le “innamorate” gieffine, che dimostravano uno spirito di adattamento unico: erano in grado di cambiare fidanzato e o amante alla stessa velocità con cui una normale ragazza si cambierebbe la biancheria.

A quindici anni mi era venuto l’odio per l’amore, sommersa da questi stereotipi. Semplicemente, non sapevo che farmene di un sentimento insulso, privato da secoli di matrimoni combinati, vuote poesie e ancor più vuoti romanzi, di ogni significato: esso era divenuto, per me, nulla di più che un buon argomento per un poemetto da quattro soldi.

Di amore vero, non ne avevo mai conosciuto: i miei genitori stavano assieme per consuetudine, dimentichi della passione e dell’affetto che, a conti fatti, probabilmente non avevano mai provato. Certo, si erano di sicuro stimati, in passato, ma una stima basata su fondamenti errati: la bellezza di mia madre e la sua educazione, che la rendeva una donna di aspetto piacevole e con cui un discorso da salotto della durata di dieci minuti poteva essere anche un momento di svago, ma che portato a livelli superiori, diveniva sterile e superficiale e la posizione di mio padre, che aveva una piccola impresa: forse non rendeva quanto la Apple, ma di certo ai miei nonni era bastato per rinunciare senza troppi indugi alla figlia minore, ben contenti che questa non morisse zitella e che avesse a disposizione un patrimonio da scialacquare che non fosse il loro. Su queste delicate fondamenta si era basato un veloce fidanzamento e un matrimonio che durava da ben venticinque anni. Dopo sette anni ero arrivata io e, nonostante fossero state avviate le pratiche per una separazione milionaria, che aveva scandalizzato le famiglie e i conoscenti, i quali si sperticavano in lodi immeritate per l’uno o per l’altra e in ancor più immeritate ingiurie, queste erano state sospese.

La rispettabilità prima di tutto. E io me ne ero altamente fregata, lasciando il “nido” paterno, tanto per parafrasare Pascoli, alla prima occasione: avevo diciotto anni, un diploma in mano -ragioneria, giusto per fare un dispetto ai miei, che speravano di vedermi in uno dei licei privati più illustri della città-, una valigia con dei vestiti comprati su un catalogo e tanta voglia di mandare al diavolo la mia famiglia.

Ebbi la mia prima esperienza in amore: il Chitarrista, un trentenne fuori corso all’università, che passava il tempo a suonare la chitarra col suo gruppo di amici, almeno, quando non erano troppo fatti. Fu deludente, dopo sei mesi di tira e molla, liti furibonde e riappacificazioni false, ma mi feci le ossa per le future delusioni. E furono tante…

Insomma, alla soglia dei ventitré anni, aveva sinceramente smesso di sperarci -ammesso che l’abbia mai fatto… forse è capitato, no, di certo è così: quegli uomini avevano stuzzicato la naturale vanità che risiede in ogni essere umano e questa era stata una debolezza inaccettabile-, dopo storie disastrose che mi avevano portata sempre più in basso. Dovetti abbandonare il mio spazioso appartamento da studentessa, trasferendomi in periferia, in un monolocale fatiscente, lasciai gli studi e iniziai a saltare da un lavoro all’altro come una rana impazzita.

Una cosa l’avevo imparata: l’amore faceva male. E io non ero più disposta a sopportarlo. Smisi di uscire con i ragazzi, dedicandomi al primo lavoro stabile trovato dopo tempo: lavoravo in un caffè. Certo, forse non era uno di quei lavori di cui ci si sogna sopra la notte, a dodici anni, ma mi accorsi con piacere che mi piaceva. Stavo iniziando di nuovo a riprendere in mano le redini della mia vita, quando arrivò lui.

Sulle prime, non mi pareva diverso dai ragazzi che frequentavano il locale: un giovane musicista squattrinato, non di buona famiglia e con quell’aria da artista maledetto tipica di chi o “se la tira”, per dirla in gergo, o di chi nella vita ne aveva viste talmente tante che le esperienze fatte lo avvolgevano come un alone mistico.

Le mie colleghe pendevano dalle sue labbra e spesso ebbi il dubbio che Jay, così si chiamava, o almeno diceva di chiamarsi, se ne fosse portato a letto almeno un paio, ma non ebbi mai conferma e sinceramente non la cercavo: se inizialmente di lui non mi importava, troppo presa dal mio progetto “Riprendiamo in mano la mia vita”, poi rimasi troppo invischiata nella sua ragnatela per avere la voglia e il coraggio di scoprirlo.